Per andare a scuola, da bambino, dovevo alzarmi tutti i giorni alle cinque del mattino. Vivevo in un ranch nel mezzo della natura più incontaminata, un posto da favola che tutti mi hanno sempre invidiato (tranne quando raccontavo dell’ora nefasta alla quale mi alzavo per andare a scuola…). I miei genitori erano allevatori di cavalli, erano molto bravi nel loro lavoro ed avevamo compratori che arrivavano da tutte le parti del mondo. Si trattava di cavalli da competizione, e quindi erano molto ricercati. Per me era un sogno svegliarmi le mattine e correre nelle stalle a salutare i miei amici a quattro zampe. Li conoscevo tutti per filo e per segno, e a otto anni ero già un ottimo cavallerizzo. Le mie feste di compleanno erano le più gettonate in assoluto, e non c’era giorno che non mi alzassi felice di esistere. Mi riusciva davvero difficile essere triste o arrabbiato, e se mi capitava non durava mai a lungo.
Certo, però, quando si trattava di andare a scuola, dovevo svegliarmi alle cinque. Alle sei uscivamo di casa, mia madre mi portava in auto fino alla stazione del bus più vicina (ed erano cinquanta minuti di guida nel mezzo della natura più incontaminata), dove mi caricava sullo scuolabus, mi baciava sulla fronte e mi ricordava di essere bravo quel giorno se avessi voluto giocare coi cavalli al mio rientro. Dopo un’altra ora sulla strada arrivavo finalmente a scuola, dove mi impegnavo davvero come un matto, sia perché volevo godermi il mio tempo con gli animali che per evitare di dover studiare o passare troppo tempo a fare i compiti una volta a casa: più facevo a scuola, meno avrei dovuto fare dopo.
Gli anni passavano e la mia vita era sempre perfetta. Il giorno dei miei tredici anni, però, subii un incidente che cambiò la mia vita per vari anni: una cavalla che stava male non si accorse di me dietro di lei e tirò un calcione all’aria che mi arrivò dritto in faccia. Mi spaccò la mandibola e persi tutti i denti davanti, sopra e sotto. Passai tre mesi in ospedale, dopo aver rischiato di morire, in una lenta e dolorosa riabilitazione. E quando tornai a casa non ero più lo stesso. Ovviamente, ero traumatizzato, avevo paura ora di passare troppo vicino a quei cavalli con i quali avevo sempre passato tutto il mio tempo. E anche loro soffrivano la mia lontananza. Ma non potevo farci niente.
Ancora peggio, non avevo più i denti e quindi non potevo mangiare niente di quello che una persona della mia età amava mangiare. Potevo ingollare solo liquidi. Potei mettere delle protesi solo un anno dopo l’incidente, ma nel frattempo avevo dovuto abituarmi al cibo liquido e alle prese in giro dei miei coetanei. Parlavo poco perché mi vergognavo di come mi uscivano le parole, e sorridevo ancora meno essendo che assomigliavo ad un vecchino senza dentiera. Anche dopo la protesi non recuperai granchè la fiducia in me stesso e nella vita, poiché si vedeva chiaramente che erano denti finti, ed i ragazzini continuavano a ridere di me. Inutile dire che passai l’intera adolescenza senza ragazze.
Mi rinchiusi sempre più dentro me stesso, e divenni taciturno e serio finché mia madre, ai miei diciotto anni, stanca e distrutta da quel mio modo di essere, mi impose di salire di nuovo a cavallo. Fu praticamente una minaccia: o così, o me ne andavo da casa. Funzionò. Mi sentii di nuovo vivo. Montai una cavalla che avevo sempre amato e che era ancora in vita, ormai anziana. Fu così dolce con me che mi misi a piangere quando fummo noi due soli in aperta campagna. Da quel giorno decisi che avrei trovato una soluzione ai miei problemi e che mi sarei battuto per tornare ad essere il ragazzino felice che ero stato prima.
Scoprii dell’esistenza dell’estetica dentale, nelle sue varie forme. Feci un primo colloquio con un medico che mi presentò le varie opzioni adatte a me e tra le quali scelsi il procedimento di estetica dentale che trovavo perfetto. Misi da parte tutti i soldi che riuscivo per un anno intero (essendo l’estetica dentale generalmente molto costosa), poi i miei genitori ed i miei nonni mi offrirono il loro contributo e così mi recai dal medico per sottopormi finalmente alla procedura. Fu un successo strepitoso. Uscii con un sorriso perfetto, quasi non mi riconoscevo. Ed iniziai a vivere di nuovo appieno, consapevole, però, che non avrei mai più concesso agli eventi avversi di avere la meglio su di me, che avrei lottato per essere sempre il fautore della mia esistenza.